lunedì 25 ottobre 2010

“L’edilizia muore, aprite i cantieri

La crisi ha lasciato sul campo, a Torino, tre mila posti di lavoro nell’edilizia e ogni giorno arrivano al sindacato nuove richieste di cassa integrazione.
La Fillea-Cgil ha censito nei primi sei mesi dell’anno 231.264 ore negli edili con 114 aziende coinvolte, 15.904 ore nei lapidei e 9 aziende, 62.920 ore nei laterizi e 9 aziende, 271.920 ore nel legno e 37 aziende, 64.160 ore nel cemento e 8 aziende. Per un totale di 3.010 lavoratori coinvolti in 646.168 ore di stop forzato.
Inoltre - come spiega il segretario della Fillea, Dario Boni - cresce il part-time che ora coinvolge 1.152 persone, che sono circa il 7-8% degli addetti, mentre era solo il 5 per cento nel 2008.
In una situazione così difficile - con i dipendenti di aziende piccole senza ammortizzatori sociali, gli altri coperti per sole 13 settimane, la mobilità non retribuita, e con l’indennità straordinaria o in deroga solo per imprese sopra i 15 dipendenti - ci sarebbe una enorme possibilità di lavoro pari a oltre 22 milioni di euro.
Si tratta dei fondi che il Cipe, con delibera pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 14 settembre dopo quattro mesi dall’approvazione, ha stanziato per interventi nelle scuole. Si tratta di 50 appetibili cantieri di edilizia scolastica in provincia di cui 33 a Torino; gli interventi oscillano da 50 mila euro a 850 mila, con picchi anche molto elevati come i 2 milioni a Perosa Argentina, i 3 milioni per il liceo Darwin di Rivoli e i 2 milioni per il Convitto Umberto I.
Boni è polemico: «Quella sarebbe una formidabile boccata di ossigeno perché si tratta nell’insieme del valore di una buona opera infrastrutturale. Inoltre i cantieri sono di importi tali da consentire l’utilizzo non soltanto di grandi aziende, ma anche di quelle piccole e medie. Ma quando, quei cantieri verranno aperti?».
Boni aggiunge: «Il rischio è che i fondi si perdano, ed è una cosa inconcepibile. Chiediamo alla Provincia di occuparsene e al più presto, perché per questo settore, l’unico vero ammortizzatore sociale è il lavoro, altro non c’è».
L’assessore provinciale, Umberto D’Ottavio, replica: «I fondi non si perderanno perché ormai sono stanziati per ogni singola opera. Però la Cgil ha ragione: è stato introdotto un farraginoso meccanismo in base al quale si deve fare per ogni singola opera una convenzione con il Provveditorato alle Opere pubbliche. Non ci aspettavamo una procedura burocratica di questo tipo».
Spiega: «Noi per le dieci opere che ci competono e che riguardano le scuole superiori stiamo procedendo. Ma non ho dubbi che si dovrà attendere ancora fino alla fine dell’anno per le convenzioni. Poi si dovranno fare le gare che, se superiori ai 500 mila euro, devono essere internazionali. Finalmente arriveremo al cantiere, ma non c’è da farsi illusioni: non sarà prima della metà del 2011».
E poi rimangono le altre quaranta opere, che spettano ai singoli Comuni riguardando scuole non superiori.
Boni non ha dubbi: «Bisogna intervenire sul patto di stabilità studiando formule che vadano aldilà della finanza a progetto. Gli imprenditori torinesi devono raccogliere una sfida che la crisi consegna loro: non solo riduzione del personale, non solo spostarsi fuori provincia per concorrere ad appalti che esasperano il massimo ribasso, ma accettare il fatto che la sfida è nell’industrializzazione dell’edilizia».

[FIRMA]MARINA CASSI LASTAMPA 23/10/2010

martedì 19 ottobre 2010

In coda al liceo che non c’è

In coda al liceo che non c’è


Il ministro Gelmini lo cita in continuazione come il fiore all’occhiello della riforma. E in effetti il liceo musicale ha creato molta attesa anche nella nostra provincia. A Torino - senza nessuna certezza che potesse essere davvero avviato - 38 fiduciose famiglie lo scorso anno lo avevano scelto come percorso di studi per i loro figli. Ma la novità qui non s’è vista. Le sezioni dovevano essere 40 in tutta Italia, in realtà ne sono partite 32. E Torino - che vanta una tradizione musicale riconosciuta nel mondo - è rimasta a bocca asciutta. In Piemonte, il liceo è stato assegnato a Cuneo e a Novara.
Ora sta per ripartire la campagna per l’orientamento dei ragazzi che frequentano la terza media. E si torna alla carica. «Ci stiamo preparando a chiedere nuovamente un liceo nel territorio torinese - spiega l’assessore all’Istruzione della Provincia Umberto D’Ottavio - e speriamo che sia la volta buona, che la dimenticanza dello scorso anno sia stata un incidente. Non abbiamo mai capito perché il liceo musicale sia stato dato ad altre province e non a Torino dove, rispetto al quadro orario, le competenze c’erano. Con una popolazione di 90 mila iscritti alle superiori è stata un’ingiustizia, per le famiglie una grande delusione. Ora diamo per scontato che Direzione Scolastica Regionale e Regione sostengano la nostra istanza».
In questi giorni la Provincia sta concludendo la raccolta delle richieste di attivazione di nuovi corsi in vista del nuovo piano dell’offerta formativa. E, come lo scorso anno, sono numerosi gli istituti che stanno avanzando nuove candidature, in città e fuori. «La nostra istruttoria - dice D’Ottavio - sta procedendo. Nel 2009 avevamo ricevuto sei richieste formali e dieci informali. Una scuola particolarmente motivata è il liceo Berti che, come parte degli altri istituti che si sono candidati, aveva già una sperimentazione musicale». Nel 2009 richieste ufficiali erano arrivate dall’Europa Unita di Chivasso, dal Porporato di Pinerolo, dal Volta, dal Regina Margherita. Il Curie di Grugliasco aspirava al liceo coreutico, altra novità disattesa. Dell’ultima ora, questa volta, è la richiesta del liceo europeo Spinelli.
L’istituto sul quale lo scorso anno la Provincia aveva puntato per l’assegnazione della sezione - e che anche quest’anno si ripropone in pole position - è il liceo artistico Passoni di via della Rocca. È qui che 38 ragazzi speravano di studiare ed è qui che in parte sono rimasti, ri-orientati sul Progetto Mozart, una sezione dove sono attivati alcuni insegnamenti musicali. «Il Passoni ha preparato una convenzione con il Conservatorio - spiega l’assessore - che rende l’organizzazione più facile rispetto ad altre situazioni». La preside del Passoni, Paola Ravetti: «In prospettiva, il rapporto tra liceo musicale e Conservatorio dovrebbe diventare come quello tra liceo artistico ed Accademia, liceo- “alta formazione”. Il regolamento del liceo musicale, poi, prevede in prima istanza una convenzione obbligatoria con i conservatori. Tutto deve essere regolato con questo atto: i reciproci rapporti, la strumentazione, i criteri di scelta dei docenti». E anche l’inevitabile prova d’accesso. «Il musicale non potrà mai essere - ricorda D’Ottavio - un liceo di massa».
I documenti ministeriali indicano il liceo musicale come tassello mancante nella formazione di qualità tra scuole medie a orientamento musicale e alta formazione dei Conservatori. «Le nostre famiglie hanno molte aspettative nei riguardi del nuovo liceo», sottolinea Lorenza Patriarca, dirigente dell’Istituto comprensivo Tommaseo-Calvino che conta una delle 25 sezioni torinesi di media musicale e condivide con il liceo Passoni il progetto «Giardino delle Arti». «Questo liceo - prosegue - coprirebbe le necessità di molti ragazzi che finora studiavano al Conservatorio con grandi difficoltà per conseguire il diploma di scuola superiore».

maria teresa martinengo La Stampa 19/10/2010

martedì 5 ottobre 2010

A Torino serve una nuova struttura per ospitare 500 studenti del Liceo

Cinquecento liceali, perché è in particolare nei licei che la popolazione sta crescendo e dove ci sono sempre più spesso problemi di capienza». Umberto D’Ottavio, assessore all’Istruzione della Provincia, le necessità le ha evidenziate con circoletti rossi su una cartina di Torino: il liceo europeo Spinelli ancora in cerca di una sistemazione definitiva, lo scientifico Volta che chiede una succursale, condizione che si collega al fatto che Galileo Ferraris e Gobetti alle ultime iscrizioni hanno dovuto dire parecchi «no» alle famiglie e che il Cattaneo scoppia. Senza dimenticare la sopraelevazione del liceo classico D’Azeglio: è sfumata con il consolidarsi della crisi economica e i limiti di spesa.
Sulla stessa cartina è anche indicata l’ipotesi che dovrebbe alleggerire la situazione. Niente area di Ponte Mosca, però, di cui si è parlato a lungo per lo Spinelli (che sta ragionando con realismo su una collocazione separata della sua scuola media): la legge Gelmini vieta l’apertura di nuovi punti di erogazione del servizio scolastico, la crisi fa il resto. «L’idea è di utilizzare l’area tra le vie Pesaro, Rovigo e corso Ciriè», spiega D’Ottavio.
Lì un tempo c’erano gli istituti Baldracco, conciario, e il tessile Guarrella, poi assorbiti nel vicino Itis Casale, e lì si trova la succursale del Guarini. Nell’ex Baldracco tra breve partiranno i lavori per la succursale dell’alberghiero Beccari che aspetta una soluzione da anni». Quest’opera - aule, laboratori di cucina e di sala - «sarà l’intervento più importante del nuovo anno - dice D’Ottavio - insieme con la ristrutturazione di un edificio, a Collegno, per la succursale dello scientifico Curie ora accolta in una scuola media. Questa succursale alleggerirà la pressione sul Cattaneo che oggi ospita alcune classi in un prefabbricato».
Chi avrà sede, in futuro, nel polo scolastico semi-dismesso di Valdocco al momento non è stabilito. «Stiamo lavorando a soluzioni che non mettano un istituto contro l’altro. I ragionamenti li faremo completi in occasione del piano di dimensionamento delle scuole di Torino. Entro i primi di novembre organizzeremo una conferenza invitando tutti i presidi. La soluzione sarà oggetto di concertazione».
Di ipotesi ce ne sono alcune che includono lo spostamento di intere scuole da un quartiere all’altro. Niente di casuale o «discrezionale». «Stiamo analizzando la provenienza territoriale della popolazione scolastica di varie scuole», spiega l’assessore. A conti fatti certe ipotesi potrebbero essere meno dolorose di quanto oggi s’immagini. «Il ragionamento, comunque, deve andare nella direzione di ridistribuire gli spazi in base alle iscrizioni», dice D’Ottavio. La riforma, infatti, ha spostato i consensi sul liceo delle scienze applicate, il linguistico. Il restyling del vecchio Itc ha ridato smalto (e iscritti) al Sommeiller e ad altri. Il classico, invece, segna un po’ il passo.
E in tema di indirizzi, la Provincia ha invitato i capi d’istituto a produrre entro l’11 ottobre un documento di «autovalutazione dell’offerta» con le richieste di attivazione di eventuali nuovi corsi. «Anche l’offerta formativa si collega all’edilizia e all’obiettivo di avere le scuole in sicurezza. A proposito, spiace non essere riusciti finora a ragionare con la Regione della campagna di orientamento scolastico che sta partendo. Anche perché nessuno ha smentito che le iscrizioni debbano avvenire in gennaio. Da parte nostra siamo impegnati a fare in modo che l’assenza di programmazione regionale non ricada sui ragazzi di terza media».
Tra le richieste di attivazione di corsi in arrivo si prevede certamente quella del liceo musicale (grande novità della riforma negato lo scorso anno a Torino) da parte dell’artistico Passoni e dall’istituto Berti (nel 2009 lo reclamarono 8 istituti). L’Alberti di Luserna San Giovanni (che chiede anche scienze applicate) e il Baldessano-Roccati di Carmagnola hanno già annunciato di voler attivare il corso triennale per «operatore dei servizi sociali». «C’è molta offerta per personale adeguatamente formato come “badante” per case di riposo e assistenza in genere - dice D’Ottavio -, un ambito che diventa d’interesse anche per i ragazzi italiani». Su un altro fronte, il Moro di Rivarolo ha avanzato la richiesta del liceo classico «perché il Botta di Ivrea è pieno. Per anni non abbiamo concesso indirizzi nuovi in attesa della riforma, nel 2009 ci siamo limitati alle confluenze. Ora è il momento di valutare nei dettagli l’offerta sul territorio. Anche perché un’offerta diffusa è anche un incentivo contro la dispersione».

Maria Teresa Martinengo La Stampa 5/10/2010

venerdì 1 ottobre 2010

Giorgio Napolitano e Cavour

Nell'Assemblea Costituente del 1946-47, si discusse ampiamente sul come caratterizzare la figura del Presidente della Repubblica; se ne discusse prendendo in considerazione, con apertura e ricchezza di riferimenti e argomenti, diverse ipotesi e possibilità di scelta, non esclusa l'opzione presidenzialista.
La conclusione di quel dibattito fu nettamente favorevole a un Capo dello Stato eletto dal Parlamento e non direttamente dai cittadini, titolare di rilevanti prerogative e attribuzioni ma non di poteri di governo, chiamato a intrattenere col Paese un rapporto non condizionato da appartenenze politiche e logiche di parte.
La Costituzione pone in cima all’articolo che sancisce caratteri e compiti del Presidente della Repubblica, l’espressione-chiave: «rappresenta l’unità nazionale». Egli la rappresenta e la garantisce svolgendo un ruolo di equilibrio, esercitando con imparzialità le sue prerogative, senza subirne incrinature ma rispettandone i limiti, e ricorrendo ai mezzi della moral suasion e del richiamo a valori ideali e culturali costitutivi dell’identità e della storia nazionale.
E chiudo qui questa digressione, della cui lunghezza e apparente estraneità al nostro incontro di oggi spero vorrete scusarmi. Ma se il rappresentare l’unità nazionale è la stella polare del ruolo che mi è stato affidato dal Parlamento, è lì anche - questo volevo sottolineare - la ragione prima del mio impegno per le celebrazioni del 150° anniversario dello Stato italiano. A maggior ragione in un periodo nel quale sul tema dell’unità nazionale pesano sia il persistere e l'acuirsi di problemi reali rimasti irrisolti, sia il circolare di giudizi sommari (in taluni casi, fino alla volgarità) sul processo che condusse alla nascita del nostro Stato unitario e anche sul lungo percorso successivo, vissuto dall’Italia da quel momento, da quel lontano 1861 a oggi. Siamo in presenza di tensioni politiche, di posizioni e manovre di parte, di debolezze e confusioni culturali, di umori ostili, che ruotano attorno alla questione dell'unità nazionale e che le istituzioni repubblicane debbono affrontare cogliendo un’occasione come quella del 150° anniversario del 17 marzo 1861.
Coglierla attraverso un'opera di ampia chiarificazione, riproponendo e arricchendo le acquisizioni della cultura storica, e collegandovi una riflessione matura sulle tappe essenziali della successiva nostra vicenda nazionale. Dovrebbe trattarsi - come ho avuto occasione di dire - di un autentico esame di coscienza collettivo, che unisca gli italiani nel celebrare il momento fondativo del loro Stato nazionale. Riuscirvi non sarà facile, l'inizio è risultato difficile, ma cominciamo a registrare una crescita di interesse e di impegno, una moltiplicazione di iniziative anche spontanee.
Non ho voluto tacervi il quadro delle preoccupazioni che mi muovono. Ma debbo aggiungere che esse non nascono da timori di effettiva rottura dell'unità nazionale. Polemiche e contese sui rapporti tra il Nord e il Sud, per quanto si esprimano talvolta in termini e in toni estremi, e rumorose grida di secessione, trovano il loro limite obiettivo nel fatto che prospettive separatiste o indipendentiste sono - e tali appaiono anche a ogni italiano riflessivo e ragionevole - storicamente insostenibili e obiettivamente inimmaginabili nell'Europa e nel mondo d'oggi.
Quel che preoccupa è dunque altro: è il possibile oscurarsi della consapevolezza diffusa di un patrimonio storico comune, il tendenziale scadimento culturale del dibattito e della comunicazione. Quel che preoccupa è il seminare motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che ha invece bisogno di confermare e rafforzare la fiducia in se stesso e di veder crescere tra gli italiani il sentimento dell'unità: nell'interesse dell'Italia e - lasciate che aggiunga - nell'interesse dell'Europa. \
Rispetto a tendenze che circolano in Italia, come quelle che ho evocato, e anche tenendo conto del loro sorprendente provincialismo, è particolarmente importante un contributo quale il vostro, di riflessione sul respiro europeo del movimento per l'unità italiana e dei suoi maggiori protagonisti, e sul quadro delle vicende europee in cui quel movimento si collocò. Come si può ignorare l'impronta ginevrina e parigina, e anche londinese, della formazione - diciamo pure tout court europea - di Cavour? O l'influenza della storia e del pensiero francese sul maturare del bagaglio culturale e del disegno politico di Giuseppe Mazzini, per non parlare del suo radicamento nell'Inghilterra di quel tempo? Il flusso dei grandi messaggi ideali provenienti dalla Francia dell'epoca rivoluzionaria e del periodo napoleonico fu retroterra essenziale del Risorgimento.
Cavour vide più lucidamente di chiunque il quadro internazionale - con i condizionamenti oggettivi che ne derivavano - in cui collocare la strategia del piccolo e ambizioso Regno di Sardegna e la questione italiana. Erano in giuoco in Europa - allora teatro privilegiato e decisivo della politica mondiale - gli equilibri usciti dalla prima e dalla seconda Restaurazione, i moti per le libertà costituzionali contro il dispotismo, gli equilibri sociali sotto il premere di nuovi conflitti, l'affermazione del principio di nazionalità e le lotte per l'indipendenza contro il dominio imperiale austriaco. Il sapersi muovere con audacia e duttilità, e con i necessari adattamenti, in questo contesto fu per Cavour fattore determinante di superiorità ai fini della guida del movimento nazionale italiano, e fattore non meno determinante per il successo ultimo della sua strategia al servizio della causa dell'Unità italiana.
L'asse della politica europea di Cavour fu l'alleanza con la Francia di Napoleone III, senza peraltro trascurare l'importanza, in momenti significativi, del rapporto con l'opinione pubblica, ambienti politici e governanti della liberale Inghilterra. E sappiamo anche come fu non lineare, e quali tormenti suscitò in Cavour, la ricerca dell'intesa con l'imperatore francese - basti pensare a quei drammatici giorni dell'aprile 1859 quando Cavour vide il suo disegno sul punto di crollare e visse momenti di estremo sconforto. Poi gli eventi presero il corso da lui voluto della II Guerra d'indipendenza. E le battaglie di Solferino e San Martino cementarono nel sangue un'alleanza che cento anni più tardi, nel 1959, il Presidente francese eletto l'anno precedente, il generale De Gaulle, volle, venendo in Italia per quelle celebrazioni, indicare come il «trovarsi insieme dei campioni di un principio grande come la terra, quello del diritto di un popolo a disporre di se stesso quando ne abbia la volontà e la capacità».
Infine, vorrei ribadire come l'altro fattore decisivo dell'affermarsi della funzione egemone di Cavour in Italia e del progredire della causa italiana, fu - come ha scritto Rosario Romeo - che «Cavour stette indubbiamente dalla parte del realismo e della moderazione, ma ebbe l'intuizione di ciò che valessero le forze e i motivi ideali nella costruzione dell'edificio italiano». E mi permetto di aggiungere, reagendo a una certa moda attuale di esaltare, rispetto a Cavour, altre personalità del Risorgimento e del movimento per l'Unità, che la grandezza del moto unitario in Italia sta precisamente nella ricchezza e molteplicità delle sue ispirazioni e delle sue componenti; la grandezza di Cavour sta nell'aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte divergenti, nell'aver saputo padroneggiare quel processo fino a condurlo allo sbocco essenziale della conquista dell'indipendenza e dell'unità nazionale.
Quando, logorato da anni di dure fatiche e di «dolori morali», scrisse, «d'impareggiabile amarezza», cessò di vivere il 6 giugno 1861, Cavour poté senza dubbio lasciare come suo estremo messaggio quello che «l'Italia era fatta». Ma nel grande discorso per Roma capitale tenuto in Parlamento il 25 marzo, otto giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia, egli aveva affermato: «L'Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa». Tra quei «gravi problemi» era destinato a risultare come il più complesso, aspro e di lunga durata il problema del Mezzogiorno, dell'unificazione reale, in termini economici, sociali e civili, e dei suoi possibili modi, tra Nord e Sud. Possiamo dire oggi che quella resta la più grave incompiutezza del processo unitario.