Ai 43 Presidenti PD delle Province
Ai 19 Vicepresidenti PD delle Province
Ai 26 Presidenti PD dei Consigli provinciali
Ai 174 Assesssori provinciali PD
Agli 813 Consiglieri Provinciali PD
p.c. Pierluigi Bersani, Enrico Letta,
Rosy Bindi, Dario Franceschini, Anna Finocchiaro
p.c. ai Deputati e Senatori PD
delle Commissioni affari cosituzionali
Carissimi,
ci siamo fatti carico di un’operazione verità sulle Province relativamente a funzioni e costi e di richiedere con forza una riforma complessiva degli assetti istituzionali nel nostro Paese.
Un’azione coerente con la posizione assunta dal nostro partito con la presentazione della proposta di legge costituzionale del 21 giugno 2011 a firma Bersani-Franceschini-Bressa e altri che in sintesi prevede l’istituzione delle città metropolitane, la contrarietrà all’istituzione delle nuove Province e
la riduzione del numero di Province esistenti. Questa pdl nasceva dall’assunto che il PD “ non è stato mai per l’abolizione dell’istituzione Provincia, poiché, ad esempio, le questioni relative ai trasporti, all’assetto idrogeologico, agli aspetti ambientali e alle strade costituiscono una dimensione non più gestibile dal singolo comune e che non dovrebbe essere gestita dalle regioni: in quest’ottica cancellare con un colpo di bacchetta magica le province ci consegnerebbe una
dimensione di confusione totale che sarebbe esattamente l’opposto di quello che i cittadini chiedono, ossia responsabilità, correttezza e trasparenza nell’amministrazione dei propri interessi.
Il PD è, quindi, per la ridefinizione delle province anche all’interno della Costituzione”(pag. 2 della relazione).
Dobbiamo purtroppo constatare come questa posizione sia stata abbandonata perché i gruppi parlamentari del PD di fatto hanno votato, con l’approvazione del decreto “salva Italia”, l’abolizione della Provincia che non avrà più funzioni amministrative dal 1 gennaio 2013 calpestando in modo palese la Costituzione (si veda l’intervento del prof. Onida su Il Sole 24 Ore del 20 gennaio scorso) .
Evidentemente abbiamo protestato verso i nostri dirigenti nazionali perché i nostri gruppi parlamentari hanno contribuito ad alimentare (insieme al prof. Monti) la falsità che abolendo le Province si risparmierebbero 12 miliardi di euro: come ormai abbiamo dimostrato - anche attraverso un autorevole studio dell’Università Bocconi - questa è la spesa che le Province sostengono per
svolgere le proprie competenze, spesa che aumenterebbe trasferendole a Regioni e Comuni.
Ci è stato promesso che in qualche provvedimento legislativo si sarebbe rivista la decisione assunta.
Di fatto i comportamenti sono stati di segno diverso:
· il nostro partito nell’apposita Commissione parlamentare è stato compatto nel sostenere che le
amministrazioni provinciali che andranno al voto in primavera devono essere commissariate
anziché prorogate di un anno come se fossero amministrazione mafiose o in bancarotta. Hanno
prorogato enti di nominati che avrebbero dovuto essere eliminati qualche anno fa (esempio Ato
acqua e rifiuti) e commissariato istituzioni garantite dalla Costituzione;
· a differenza di alcune Regioni guidate dal centrodestra, nessuna di quelle guidate dal
centrosinistra ha impugnato alla Corte Costituzionale il decreto “salva Italia” per la parte sulle
Province;
· il nostro responsabile nazionale degli enti locali in occasione della mobilitazione dei Consigli
provinciali del 31 gennaio ha suggerito ai gruppi consiliari di non approvare l’ordine del giorno
dell’Upi (che abbiamo contribuito a redigere) sottolineando l’inopportunità di promuovere
ricorsi alla Corte Costituzionale (per fortuna è stata una grida manzoniana, perché tutti i
Consigli d’Italia l’hanno approvato).
Siamo ancora stupefatti e riteniamo grave non difendere la Costituzione sempre.
In ogni caso non ci siamo rassegnati.
Abbiamo costruito lavorando come presidenti del PD all’interno dell’UPI (in particolare con Nicola
Zingaretti, Fabio Melilli, Piero Lacorazza, Giovanni Florido e Beatrice Draghetti) una proposta di
legge che riducendo il numero delle Province, istituendo le città metropolitane, abolendo il numero
gli uffici periferici ed eliminando gran parte degli enti intermedi consente la riduzione reale della
spesa pubblica di 5 miliardi di euro (anziché di soli 65 milioni come prevede il decreto “salva
Italia”). L’abbiamo presentata alla stampa, poi ai gruppi parlamentari e al Governo.
Sicuramente è stata aperta una breccia. Lo abbiamo constatato nel seminario del PD che si è tenuto
a Roma martedì scorso. Nel documento presentato all’inizio dell’incontro anche se timidamente si
afferma che l’eliminazione delle Province non ha senso, che forse occorrerà cambiarne il nome, che
devono avere poche funzioni, che è giusto ridurre il numero degli uffici periferici dello Stato, ma è
fondamentale che gli organi non siano non più eletti a suffragio universale.
Tutti i presidenti di Provincia presenti hanno sostanzialmente contestato l’elezione di secondo grado
chiedendo che cosa ci sia di così grave in democrazia nell’essere eletti direttamente dal popolo.
Abbiamo motivato che il sistema elettorale di secondo grado di fatto equivale a indebolire le
Province e accentuare il neocentralismo regionale.
Abbiamo osservato che oggi i cittadini chiedono di poter scegliere i propri rappresentanti e non
accettano più che siano i partiti a nominarli.
Non c’è stato verso di far cambiare opinione al gruppo dirigente nazionale, anche se era in
minoranza: ha preferito fare propria la posizione di Astrid elaborata in modo determinante con il
contributo degli onorevoli Vitali, Lanzillotta e Bassanini.
Questa dunque la posizione del nostro partito.
Secondo noi occorre spiegare urgentemente al gruppo dirigente nazionale il grande errore che sta
compiendo se fa proprie non le opinioni di consiglieri, assessori o presidenti provinciali, ma quelle
di un piccolo gruppo che ha deciso di decidere per conto di tutti noi.
Dobbiamo e vogliamo coinvolgere i parlamentari dei singoli territori, gli organi provinciali e
regionali.
Sinceramente rammarica essere stati abbandonati dal nostro partito.
Stupisce che con queste decisioni, che rincorrono l’antipolitica, il PD stia colpevolizzando e
demotivando una parte importante della sua classe politica diffusa sul territorio nazionale che ha il
grande merito di essere stata eletta direttamente dal popolo e di essere presente nelle istituzioni.
Il PD non dovrebbe fidarsi un po’ più di noi?
Antonio Saitta e Andrea Barducci
martedì 28 febbraio 2012
domenica 26 febbraio 2012
Da Gelmini a Profumo, cosa è cambiato per la scuola pubblica?
MARINA BOSCAINO –
La rete pullula di appelli, petizioni, richieste, lettere aperte: prove Invalsi, pensioni, valutazione i tre temi al momento più gettonati. La scuola, dopo il sospiro di sollievo tirato per la conclusione dell’era della triade Gelmini-Tremonti-Brunetta, che ha segnato uno dei momenti di peggiore, oltre che maggiore, disinvestimento – culturale, oltre che economico – sul sistema scolastico nel nostro Paese, ha cominciato, prima fiduciosamente, poi con sempre maggiore cautela, ad esternare i propri desiderata al nuovo inquilino di viale Trastevere, certa almeno del ritorno ad un ascolto concreto, dopo l’autoreferenzialità assoluta di Gelmini e del suo staff.
A distanza di circa 3 mesi dall’insediamento di Profumo, si registra un certo scetticismo rispetto alla possibilità che il cambiamento sia davvero concreto. Certo, siamo indubbiamente al riparo dal profluvio di gaffes che Mary Star ha collezionato (inutile ricordare quella iperbolica del tunnel Gran Sasso-Ginevra). Ma – come la proverbiale sobrietà – anche questo dovrebbe far parte di quel minino sindacale garantito da qualsiasi governo. Ciò che manca, che continua a mancare, è un’attenzione esperta e sollecita ai problemi della scuola; oltre alla volontà concreta di porre la scuola stessa al centro di un’agenda politica che abbia a cuore il futuro del Paese.
I mantra cari alla scuola democratica, alla scuola della Costituzione, rappresentano litanie un po’ sbiadite e certamente inefficaci, che collaudano la memoria di alcuni di noi, la nostra capacità di ricordare principi e valori a dispetto dell’esistente, e di insistere perché vengano ricordati; ma certamente non registrano l’adesione e l’interesse autentici della maggior parte di coloro che si occupano di scuola pubblica: inclusione, cittadinanza, emancipazione, uguaglianza, merito sono etichette abusate e svuotate di significato, quando non riplasmate su significati di stampo neoliberista.
Fino ad oggi gli studenti sono rimasti un po’ defilati rispetto alle richieste avanzate al ministro, forse immobilizzati da un panorama che certamente non incoraggia alla partecipazione: immaginate di avere dai 15 ai 19 anni, oggi. Il vostro presente è il nostro; l’unico passato è l’ultimo triennio Berlusconi, il solo che siete in grado realmente di ricordare. Le generazioni di riferimento – i vostri padri, i vostri insegnanti – annaspano nella notte della politica. Che percezione avreste del mondo, della cittadinanza, del futuro, del senso?
È di questi giorni la notizia che la Rete degli Studenti ha avviato la campagna “Mai più nelle nostre scuole”, raccolta di firme e ricorsi per la cancellazione di alcuni provvedimenti assunti dal precedente governo, cui almeno occorre riconoscere la capacità di essere riusciti a partorire ed imporre una serie di odiosissimi provvedimenti alla scuola italiana in tempi rapidissimi: le cosiddette “riforme” – eufemismo altisonante per non dire “tagli” – che hanno investito tutti i segmenti della scuola. Ma anche ambiti specifici, come i quattro sui quali gli studenti chiedono una marcia indietro a Profumo:
“Mai più nelle nostre scuole” alla bocciatura per il limite di assenze. Secondo il Dpr 122/09 sulla valutazione solo i ¾ della presenza rispetto al monte ore annuale garantiscono la promozione.
“Mai più nelle nostre scuole” al voto di condotta. Con il 5 in condotta si perde l’anno scolastico.
“Mai più nelle nostre scuole” alla sufficienza in ogni materia per accedere all’Esame di Stato. Da qualche anno si può partecipare alla maturità solo se si hanno tutte almeno sufficienze in ciascuna materia.
“Mai più nelle nostre scuole” al tetto del 30% di studenti migranti per classe: iniziò con Cota, e la balzana idea delle classi-ponte; ghetti, in realtà, dove – secondo le intenzioni del proponente – andavano relegati i diversi, indipendentemente dalla provenienza, per poter peggio provvedere alla loro integrazione in quella scuola che la Costituzione definisce “aperta a tutti”. Oggi la normativa (Cm 2/2010) prevede un massimo del 30% di studenti migranti in ogni classe, con un numero motivato di deroghe.
A prescindere dalla opportunità delle richieste – alcune, in particolare, sono estremamente sensate – sarebbe un bel segnale che qualcuno battesse un colpo. Il miracolo di una generazione che oggi abbia ancora voglia di esserci e di partecipare, di provare ad avere una lettura critica della realtà, di dire no a qualcosa senza rifugiarsi nell’acquiescenza acefala non può e non deve lasciare indifferenti.
Marina Boscaino
(24 febbraio 2012)
La rete pullula di appelli, petizioni, richieste, lettere aperte: prove Invalsi, pensioni, valutazione i tre temi al momento più gettonati. La scuola, dopo il sospiro di sollievo tirato per la conclusione dell’era della triade Gelmini-Tremonti-Brunetta, che ha segnato uno dei momenti di peggiore, oltre che maggiore, disinvestimento – culturale, oltre che economico – sul sistema scolastico nel nostro Paese, ha cominciato, prima fiduciosamente, poi con sempre maggiore cautela, ad esternare i propri desiderata al nuovo inquilino di viale Trastevere, certa almeno del ritorno ad un ascolto concreto, dopo l’autoreferenzialità assoluta di Gelmini e del suo staff.
A distanza di circa 3 mesi dall’insediamento di Profumo, si registra un certo scetticismo rispetto alla possibilità che il cambiamento sia davvero concreto. Certo, siamo indubbiamente al riparo dal profluvio di gaffes che Mary Star ha collezionato (inutile ricordare quella iperbolica del tunnel Gran Sasso-Ginevra). Ma – come la proverbiale sobrietà – anche questo dovrebbe far parte di quel minino sindacale garantito da qualsiasi governo. Ciò che manca, che continua a mancare, è un’attenzione esperta e sollecita ai problemi della scuola; oltre alla volontà concreta di porre la scuola stessa al centro di un’agenda politica che abbia a cuore il futuro del Paese.
I mantra cari alla scuola democratica, alla scuola della Costituzione, rappresentano litanie un po’ sbiadite e certamente inefficaci, che collaudano la memoria di alcuni di noi, la nostra capacità di ricordare principi e valori a dispetto dell’esistente, e di insistere perché vengano ricordati; ma certamente non registrano l’adesione e l’interesse autentici della maggior parte di coloro che si occupano di scuola pubblica: inclusione, cittadinanza, emancipazione, uguaglianza, merito sono etichette abusate e svuotate di significato, quando non riplasmate su significati di stampo neoliberista.
Fino ad oggi gli studenti sono rimasti un po’ defilati rispetto alle richieste avanzate al ministro, forse immobilizzati da un panorama che certamente non incoraggia alla partecipazione: immaginate di avere dai 15 ai 19 anni, oggi. Il vostro presente è il nostro; l’unico passato è l’ultimo triennio Berlusconi, il solo che siete in grado realmente di ricordare. Le generazioni di riferimento – i vostri padri, i vostri insegnanti – annaspano nella notte della politica. Che percezione avreste del mondo, della cittadinanza, del futuro, del senso?
È di questi giorni la notizia che la Rete degli Studenti ha avviato la campagna “Mai più nelle nostre scuole”, raccolta di firme e ricorsi per la cancellazione di alcuni provvedimenti assunti dal precedente governo, cui almeno occorre riconoscere la capacità di essere riusciti a partorire ed imporre una serie di odiosissimi provvedimenti alla scuola italiana in tempi rapidissimi: le cosiddette “riforme” – eufemismo altisonante per non dire “tagli” – che hanno investito tutti i segmenti della scuola. Ma anche ambiti specifici, come i quattro sui quali gli studenti chiedono una marcia indietro a Profumo:
“Mai più nelle nostre scuole” alla bocciatura per il limite di assenze. Secondo il Dpr 122/09 sulla valutazione solo i ¾ della presenza rispetto al monte ore annuale garantiscono la promozione.
“Mai più nelle nostre scuole” al voto di condotta. Con il 5 in condotta si perde l’anno scolastico.
“Mai più nelle nostre scuole” alla sufficienza in ogni materia per accedere all’Esame di Stato. Da qualche anno si può partecipare alla maturità solo se si hanno tutte almeno sufficienze in ciascuna materia.
“Mai più nelle nostre scuole” al tetto del 30% di studenti migranti per classe: iniziò con Cota, e la balzana idea delle classi-ponte; ghetti, in realtà, dove – secondo le intenzioni del proponente – andavano relegati i diversi, indipendentemente dalla provenienza, per poter peggio provvedere alla loro integrazione in quella scuola che la Costituzione definisce “aperta a tutti”. Oggi la normativa (Cm 2/2010) prevede un massimo del 30% di studenti migranti in ogni classe, con un numero motivato di deroghe.
A prescindere dalla opportunità delle richieste – alcune, in particolare, sono estremamente sensate – sarebbe un bel segnale che qualcuno battesse un colpo. Il miracolo di una generazione che oggi abbia ancora voglia di esserci e di partecipare, di provare ad avere una lettura critica della realtà, di dire no a qualcosa senza rifugiarsi nell’acquiescenza acefala non può e non deve lasciare indifferenti.
Marina Boscaino
(24 febbraio 2012)
lunedì 6 febbraio 2012
Commemorazione del Presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scàlfaro.
Pierluigi Bersani
Signor Presidente, aderisco alle sue parole di commemorazione, di cordoglio e ne aggiungo qualcuna personale.
Il ruolo di Oscar Luigi Scàlfaro, nella vicenda italiana, attualmente, dovrà essere meditato, approfondito. Già dalle prossime settimane il Partito Democratico cercherà di dare un primo contributo di riflessione. Tuttavia, credo che le poche parole che si possono dire in quest'Aula abbiano un significato particolare perché risuonano nel luogo che Scàlfaro riteneva baricentrico della democrazia italiana.
Credo che sia giusto qui, brevissimamente, davanti alla morte e deposte le contese, pronunciarsi sul suo lascito, su quello che si ritiene essenziale del suo lascito. Per me e per noi, due cose sono fondamentali; la prima è la dignità, il ruolo e l'autonoma responsabilità della politica, quella che è stata chiamata, da molti commentatori, la laicità del religiosissimo Scàlfaro e che in fondo, in realtà è la concordia-discordia sempre da regolare fra cittadino e persona. Credo che Scàlfaro ci lasci, a questo proposito, un messaggio: non è affatto vero che ragionare con la testa di tutti e con i diritti di tutti, come deve fare la politica, non sia compatibile con forti e radicate convinzioni personali; anzi, forti convinzioni personali possono far capire meglio che la politica deve essere ispirata dalle proprie convinzioni, ma non deve essere al servizio delle stesse.
Il secondo lascito che, per noi, va sottolineato è naturalmente quello che riguarda la Costituzione, quella specie di religiosità costituzionale, forse si può dire così, di Oscar Luigi Scàlfaro, che non era mai, in nessun modo - ne siamo tutti testimoni - un atteggiamento di conservazione burocratica; semmai egli era nobilmente conservatore, come si usa dire.
Scàlfaro ha sempre detto, lo abbiamo sentito mille volte, che la Costituzione, la Carta va aggiornata purché questo avvenga nello spirito della Costituzione, cioè nella convergenza, non nella divisione, e purché non venga toccato il cuore della Costituzione stessa. Certamente, in questo cuore Scàlfaro metteva anche l'assetto parlamentare della nostra democrazia; ai suoi occhi questo assetto poteva essere riformato, aggiornato, modernizzato ma non soppiantato o deformato.
Ora, si può essere o meno d'accordo con questo, ma bisogna riconoscere tutti che fu questo e non altro, non questioni politiche o personali, il terreno di confronto, anche aspro, di quegli anni. Credo che questo tema rimanga, sia ancora davanti a noi. Chiudo su questo pensiero: credo che la domanda su quale democrazia vi sarà, domani, per il nostro Paese sia ancora drammaticamente presente, non possa svilirsi nella polemica politica quotidiana e richieda un confronto alto, serio, fuori dalla polemica, lo ripeto, quotidiana, non rinunciando all'idea che sia possibile, da questo confronto, avere decisioni di riforma.
Un'ultimissima considerazione: ad uno ad uno i padri costituenti se ne vanno e si sta assottigliando via via il numero delle grandi e nobili riserve della Repubblica, cioè delle personalità capaci di interpretare tutto il filo logico e civico della nostra vicenda politica, sociale, dalle origini dell'Italia repubblicana ad oggi. Figure, queste, che, non a caso, hanno avuto in passaggi difficili della Repubblica un loro ruolo. Allora, mentre tutti rivendichiamo, sottolineiamo l'esigenza di un rinnovamento, anche generazionale, della politica, dobbiamo però anche chiederci: senza quelle figure come si riprodurrà quell'affetto consapevole e orgoglioso verso le proprie origini costituzionali, verso la propria vicenda repubblicana che è da sempre la vera forza delle grandi democrazie, come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia?
Come la riprodurremo, con chi, come si farà? Credo che a tutti tocchi dare una risposta. Per quel che ci riguarda abbiamo puntato sul rinnovamento di un'idea di partito che sia pienamente dentro la vicenda democratica nazionale e, quindi, sia capace anche di trasmetterla.
Abbiamo detto: un partito del lavoro, dell'unità della nazione, della Costituzione. Per parte nostra questo è il nostro impegno e la promessa che facciamo a Oscar Luigi Scàlfaro.
Signor Presidente, aderisco alle sue parole di commemorazione, di cordoglio e ne aggiungo qualcuna personale.
Il ruolo di Oscar Luigi Scàlfaro, nella vicenda italiana, attualmente, dovrà essere meditato, approfondito. Già dalle prossime settimane il Partito Democratico cercherà di dare un primo contributo di riflessione. Tuttavia, credo che le poche parole che si possono dire in quest'Aula abbiano un significato particolare perché risuonano nel luogo che Scàlfaro riteneva baricentrico della democrazia italiana.
Credo che sia giusto qui, brevissimamente, davanti alla morte e deposte le contese, pronunciarsi sul suo lascito, su quello che si ritiene essenziale del suo lascito. Per me e per noi, due cose sono fondamentali; la prima è la dignità, il ruolo e l'autonoma responsabilità della politica, quella che è stata chiamata, da molti commentatori, la laicità del religiosissimo Scàlfaro e che in fondo, in realtà è la concordia-discordia sempre da regolare fra cittadino e persona. Credo che Scàlfaro ci lasci, a questo proposito, un messaggio: non è affatto vero che ragionare con la testa di tutti e con i diritti di tutti, come deve fare la politica, non sia compatibile con forti e radicate convinzioni personali; anzi, forti convinzioni personali possono far capire meglio che la politica deve essere ispirata dalle proprie convinzioni, ma non deve essere al servizio delle stesse.
Il secondo lascito che, per noi, va sottolineato è naturalmente quello che riguarda la Costituzione, quella specie di religiosità costituzionale, forse si può dire così, di Oscar Luigi Scàlfaro, che non era mai, in nessun modo - ne siamo tutti testimoni - un atteggiamento di conservazione burocratica; semmai egli era nobilmente conservatore, come si usa dire.
Scàlfaro ha sempre detto, lo abbiamo sentito mille volte, che la Costituzione, la Carta va aggiornata purché questo avvenga nello spirito della Costituzione, cioè nella convergenza, non nella divisione, e purché non venga toccato il cuore della Costituzione stessa. Certamente, in questo cuore Scàlfaro metteva anche l'assetto parlamentare della nostra democrazia; ai suoi occhi questo assetto poteva essere riformato, aggiornato, modernizzato ma non soppiantato o deformato.
Ora, si può essere o meno d'accordo con questo, ma bisogna riconoscere tutti che fu questo e non altro, non questioni politiche o personali, il terreno di confronto, anche aspro, di quegli anni. Credo che questo tema rimanga, sia ancora davanti a noi. Chiudo su questo pensiero: credo che la domanda su quale democrazia vi sarà, domani, per il nostro Paese sia ancora drammaticamente presente, non possa svilirsi nella polemica politica quotidiana e richieda un confronto alto, serio, fuori dalla polemica, lo ripeto, quotidiana, non rinunciando all'idea che sia possibile, da questo confronto, avere decisioni di riforma.
Un'ultimissima considerazione: ad uno ad uno i padri costituenti se ne vanno e si sta assottigliando via via il numero delle grandi e nobili riserve della Repubblica, cioè delle personalità capaci di interpretare tutto il filo logico e civico della nostra vicenda politica, sociale, dalle origini dell'Italia repubblicana ad oggi. Figure, queste, che, non a caso, hanno avuto in passaggi difficili della Repubblica un loro ruolo. Allora, mentre tutti rivendichiamo, sottolineiamo l'esigenza di un rinnovamento, anche generazionale, della politica, dobbiamo però anche chiederci: senza quelle figure come si riprodurrà quell'affetto consapevole e orgoglioso verso le proprie origini costituzionali, verso la propria vicenda repubblicana che è da sempre la vera forza delle grandi democrazie, come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia?
Come la riprodurremo, con chi, come si farà? Credo che a tutti tocchi dare una risposta. Per quel che ci riguarda abbiamo puntato sul rinnovamento di un'idea di partito che sia pienamente dentro la vicenda democratica nazionale e, quindi, sia capace anche di trasmetterla.
Abbiamo detto: un partito del lavoro, dell'unità della nazione, della Costituzione. Per parte nostra questo è il nostro impegno e la promessa che facciamo a Oscar Luigi Scàlfaro.
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